CURIOSITA’

𝑺𝑰 𝑫𝑰𝑪𝑬 𝑲𝑨𝑹𝑨̀𝑻𝑬 𝑶 𝑲𝑨𝑹𝑨𝑻𝑬̀? 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒕𝒊𝒏𝒐 𝑮𝒊𝒐𝒓𝒈𝒊

Nessuno dei due.
Nel tempo, si è vista addirittura aprirsi una diatriba (che fra parentesi, si direbbe più correttamente diàtriba) fra Karàte = sportivo e Karaté = tradizionale.
Cioè, i tradizionalisti pronunciano con l’accento sulla “e” finale, e gli sportivi pronunciano con l’accento sulla seconda “a”.
Inutile ribadire, che sono entrambi degli errori. Il Giapponese non conosce il nostro accento: il nostro accento è basato su una emissione di forza (volume) e durata di una certa sillaba. Se diciamo “casa”, l’accento sulla prima a è composto sia da una maggiore intensità di quella vocale, sia di un allungamento (specialmente in alcune regioni). Il giapponese non tiene conto di questo;
Nella lingua giapponese, le sillabe (più correttamente chiamate ‘more’) hanno eguale importanza e devono essere pronunciate bene, senza tirarne via alcune e allungarne delle altre, come spesso invece capita nelle nostre lingue occidentali.
In compenso, la lingua Giapponese contempla il pitchi akusento (“Pitch Accent”): una differenza tonale fra le sillabe. E la differenza non è di intensità o durata, ma solo di tono: in termini musicali, diciamo, la differenza che c’è fra un DO e un RE.
Se una parola ha il tono alto sull’ultima sillaba, non significa che l’ultima sillaba è accentata, ma che ha un tono più alto, come un RE è più alto di un DO (è un fatto di hertz, non di decibel).
è quindi un fatto di intonazione.
Esistono diversi tipi di ‘pitch accent’ in Giapponese, ed alcuni dei più noti sono ad esempio Atamadaka gata (頭高型, mora alta iniziale) Nakadaka gata (中高型 mora alta centrale) Odakagata (尾高型 mora alta finale).
Esistono molte regole di distribuzione dell’intonazione – ad esempio la necessità che le prime due more siano sempre diverse eccetera – ma il nostro caso è uno dei più semplici, perché prevede l’intonazione 平板型 Heiban gata, ossia l’intonazione piatta.
kà -rá – té
Questo tipo di intonazione non ci lascia dubbi: il tono sale dopo la prima sillaba e la seconda e la terza sono identiche in tutto e per tutto.
Detto ciò, come possiamo accostarci a regole fonetiche così diverse dalla nostra sensibilità? Alcune università (anche italiane) hanno compiuto studi sulla sensibilità a queste sfumature della lingua giapponese, ed è risultato che l’orecchio si abitua a percepirle o dopo 15 anni di pratica della lingua, o dopo approfonditi studi linguistici a tema fonetico.
La ‘morale provvisoria’ per noi, potrebbe essere intanto quella di sapere, che se non siamo esperti della lingua giapponese o madrelingua, sbagliamo di sicuro.
E quindi possiamo rassegnarci ad adattare le parole tecniche ad un nostro accento, cercando di rimanere nella dignità, di non forzarlo o di non esagerare l’italianizzazione.
anche perché, se vogliamo dire una parola in giapponese corretto, occorre modificare la musica di tutta la nostra frase: a noi uscirà per forza una frase come
“io faccio karAAte”
o
“io faccio Karatéé”
Se vogliamo dire quella parola (o magari una o due o tre, più lunghe o complesse) all’interno di una frase italiana che ha il suo ritmo e la sua naturale oscillazione ed appoggio (chiedere a Dante in proposito), dobbiamo accettare una lieve storpiatura, oppure sospendere la musicalità dell’italiano, e parlare con l’intonazione e il ritmo dei giapponesi anche nel resto della frase, e diventa macchinoso. In ambedue i casi, facciamo torto a qualcuno.
Io credo che, sapendo che sbagliamo, e perché sbagliamo, possiamo sbagliare con la coscienza a posto.
Osu a tutti
(a proposito: la u in fondo a osu è muta, come quasi tutte le u. Per questo si legge Oss: occhio a dire quindi unsù o gankakù con la famosa u di upupa).

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